Storia dei manicomi imolesi dalle origini ai giorni nostri

Alcuni contenuti del corso
“La Psichiatria a Imola: passato, presente, futuro” tenuto dal Prof. Giovanni Giovannini nel 2023

La psichiatria moderna nasce nella seconda metà del 1700, sotto la spinta delle idee illuministe. Quando non vi era ancora un approccio scientifico nell’interpretazione dei disturbi mentali, prevalevano le concezioni magico-mistiche: in alcune civiltà i portatori di tali patologie venivano considerati ispirati dalla divinità e godevano di un certo rispetto, in altri casi erano giudicati indemoniati e mandati al rogo. Nella maggior parte dei casi erano abbandonati a sé stessi, spesso costretti a vivere di carità; quando mettevano in atto comportamenti antisociali, venivano incarcerati.

Il primo reparto psichiatrico parigino, collegato al più ampio ospedale generale “La Salpetriere”, nel quale si troverà a lavorare Philippe Pinel, che molto si adoperò per migliorare le condizioni dei degenti, nacque infatti come sezione psichiatrica del carcere. L’idea quindi di istituire luoghi dedicati alla cura di queste persone, nacque da un impulso progressista. L’involuzione che portò a trasformare i manicomi in quei luoghi di segregazione che abbiamo conosciuto in tempi più recenti, fu lunga e complessa.

Nel 1775, per volere del cardinale Carlo Banti, nipote del papa Pio V, venne istituito a Imola un reparto “per la cura degli alienati” suddiviso in 5 camere, di due letti ciascuna, per un totale di 10 letti. Tale reparto venne collocato presso l’ospedale S. Antonio, una delle sette diverse sedi che, fin dal 1200, costituivano l’ospedalità imolese. Nel 1778, ultimata la costruzione dell’Ospedale “Santa Maria della Scaletta” (quello che ora chiamiamo “ospedale vecchio”) su progetto dell’architetto Cosimo Morelli, vennero accorpate in quella struttura tutte le attività svolte nelle sedi preesistenti, compreso il reparto per la cura dei malati di mente che si articolò in sei camere di due letti ciascuna. A quell’epoca, l’ente preposto all’amministrazione degli ospedali era la “Congregazione di carità”. Imola, infatti, faceva parte dello Stato Pontificio, all’interno del quale (come in molti altri stati retti da monarchie assolute) i servizi pubblici erano concepiti come gentile concessione del sovrano, appunto “caritatevole”. Si era ben lontani dall’idea di “diritti del cittadino”. Ciononostante, non si era del tutto insensibili alle novità provenienti dall’estero, ad esempio dalla già citata Francia.

I regolamenti specifici dell’epoca stabilivano quanti spazi e quanti posti letto dovessero essere riservati ai pazienti del settore psichiatrico. Si riteneva infatti che la condizione psichiatrica non fosse necessariamente stabile e duratura nel tempo; per tale motivo, tutte le normative riferite al ricovero avevano intenti restrittivi, al fine di ridurre tale eventualità solo ai casi in cui fosse strettamente indispensabile. L’ospedale di allora era legato all’idea di “ospitalità”. Vi trovavano infatti ricovero i poveri, i pellegrini, le donne incinte che non avevano cure adeguate a domicilio, i bambini abbandonati, eccetera. Già istituire un settore per curare un disturbo specifico era una rivoluzione. I rimedi per la cura delle malattie erano paragonabili a quei prodotti che oggi definiremmo “di erboristeria” o “rimedi naturali” (composti molto semplici derivanti da sostanze comuni in natura); erano totalmente sconosciuti i prodotti creati mediante sintesi chimica.

Non faceva eccezione la psichiatria, totalmente sprovvista di veri e propri farmaci e che vedrà comparire solo nell’ottocento le prime sostanze chimiche di sintesi dotate di effetto sedativo generico quali i bromuri e i carbamati. Spesso l’azione del medico si limitava ad aggiustare la dieta dei pazienti: mentre la fascia più povera della popolazione, che si nutriva prevalentemente di polenta di farina di mais, andava incontro a malattie carenziali, prima fra tutte la pellagra, con la sua sequela di alterazioni nervose e mentali, le classi più ricche erano affette da malattie come la gotta, dovuta a eccessivo consumo di carne, o lo “scorbuto di terra” (anch’esso accompagnato da alterazioni neurologiche). Quest’ultimo era una malattia paradossale, dovuta al fatto che gli abbienti consideravano disdicevole l’uso dei legumi o della frutta secca, per cui nella stagione invernale, in assenza di verdure fresche e di altri prodotti vegetali, continuando a nutrirsi soprattutto di carne, andavano incontro ad avitaminosi (soprattutto carenza di vitamina C), presentando in contemporanea sia sintomi di sovralimentazione che sintomi carenziali.

Il riequilibrio della dieta, limitatamente a questi casi, sortiva effetti miracolosi.

Durante il dominio di Napoleone, furono lanciati programmi per promuovere la salute pubblica, affidati alla responsabilità del medico Jean Boutin. Tali programmi comprendevano anche una rete di infermieri che si recavano a domicilio per fornire consigli di carattere igienico. Anche per gli “alienati”, come venivano definiti allora i pazienti psichiatrici, erano previste cure e visite domiciliari (pur guardando tutto ciò con lo sguardo di oggi, un’organizzazione siffatta ci appare molto moderna). Sia durante il periodo napoleonico che dopo la restaurazione, vi fu una sostanziale continuità nella gestione dei luoghi di ricovero psichiatrici. Questi, fin dalla loro istituzione, dovettero fare fronte a richieste progressivamente crescenti, non solo da Imola, ma anche dalle zone limitrofe, creando seri problemi di bilancio, nonostante

la Congregazione di Carità chiedesse, per i pazienti provenienti da fuori, un contributo economico ai comuni di provenienza. Nel 1844 Giovanni Mastai Ferretti (il futuro papa Pio IX), allora vescovo di Imola, incaricò il dott. Cassiano Tozzoli di riorganizzare l’assistenza psichiatrica. IL dott. Tozzoli, insieme all’infermiere Ludovico Casadio, soggiornò a lungo presso l’ospedale di Reggio Emilia, che era all’avanguardia nella terapia e nell’assistenza psichiatrica, per ispirarsi a quel modello.

La provincia di Bologna continuava a far parte dello stato pontificio, mentre Reggio Emilia si trovava nel ducato di Modena per cui, ancora una volta, come al tempo dei primi input provenienti dalla Francia, Imola trasse ispirazione “dall’estero”. Il dott. Tozzoli fece ampliare i locali ripetendo lo schema iniziale di Cosimo Morelli, che prevedeva per i pazienti una serie di cortili interni quadrati circondati da portici, con le aree per il personale di servizio collocate esternamente a questi. Veniva posta di solito grande attenzione alla progettazione degli spazi, ritenendo che al “disordine mentale” si dovesse contrapporre un “ordine spaziale” ben definito.

Dai 12 posti letto iniziali, si arrivò progressivamente a 80/100. Nemmeno questo ultimo aumento fu sufficiente a soddisfare tutte le richieste. Il dott. Tozzoli chiese a Pio IX di consentire ulteriori ampliamenti, ma la richiesta non sortì esito positivo e gli fu risposto di accogliere le domande di ammissione solo in base alla effettiva capienza delle strutture esistenti. In assenza di mezzi specifici di cura, come già descritto in precedenza, si organizzarono le attività di ergoterapia (cioè di terapia occupazionale), ritenendo che l’applicazione della mente alle attività pratiche potesse distogliere dalla distorsione delle idee e dal distacco dalla realtà.

Durante la seconda guerra d’indipendenza (1859), la provincia di Bologna e la Romagna insorsero contro il Papa ed entrarono rapidamente nello stato sabaudo; le Marche restarono nello stato pontificio fino alla spedizione dei mille e solo nel 1861, alla proclamazione del Regno d’Italia, entrarono a farne parte.

Per qualche tempo quindi, i pazienti della Romagna, che si distribuivano fra Imola e Pesaro, dove nel frattempo era sorto un altro ospedale psichiatrico, furono indirizzati tutti a Imola. Questo aumentò ulteriormente l’affluenza di pazienti. Dopo il passaggio dallo stato pontificio allo stato unitario, Imola ebbe come sindaco il liberale Giovanni Codronchi. Questi invitò Tozzoli ad andare in pensione e, al suo posto nominò lo psichiatra Luigi Lolli. Il nuovo direttore promosse ulteriori studi sulle malattie mentali, sempre prendendo a modello la psichiatria francese. Per sua iniziativa si svolse nel 1874, a Imola il primo congresso italiano di “freniatria” (così veniva chiamato allora lo studio delle malattie mentali). Egli unì sempre alla sua attività di medico una oculata attività di amministratore. Si pose nuovamente il problema della compatibilità economica e riorganizzò le attività di ergoterapia in modo da poterne vendere i prodotti. Aumentando gli introiti, in alcuni casi anche con l’innalzamento delle rette, e razionalizzando la spesa, risanò il bilancio, che periodicamente era andato in passivo. Durante la sua gestione il manicomio di Imola era divenuto un modello ammirato e imitato in molte parti d’Italia; tuttavia, accentrò su di sé tante cariche che, cumulate, avrebbero configurato ai giorni nostri un conflitto di interessi (anche se all’epoca non esisteva nemmeno tale concetto). Sedeva infatti nel consiglio d’amministrazione della Congregazione di Carità, sopravvissuta alla fine dello stato pontificio ed ente finanziatore dell’ospedale da lui diretto; faceva parte del consiglio provinciale, con il quale trattava la cessione di alcune strutture imolesi, nonché del consiglio di amministrazione della Banca di Credito cittadina, alla quale chiedeva finanziamenti.

Se tutto questo attivismo permetteva di fare fronte ad ogni richiesta senza passività per gli enti coinvolti, è a lui che si deve uno dei passaggi che indirizzarono le prime strutture psichiatriche verso l’involuzione manicomiale. Infatti, si deve a lui l’ipertofia dei luoghi di ricovero imolesi, con la concentrazione di tanti individui sofferenti nello stesso posto, il che, se consentì risparmi di scala, fece però sì che si perdesse l’attenzione verso le necessità individuali di cura. Considerate esaurite le possibilità di utilizzare i progetti iniziali di Cosimo Morelli, commissionò i successivi ampliamenti all’architetto Antonio Cipolla. Gli ultimi aggiornamenti delle strutture psichiatriche a Imola furono affidati poi all’ingegner Felice Orsini (omonimo del noto patriota Mazziniano, con il quale non aveva, in realtà, nulla a che fare). Completata la struttura adiacente a “Santa Maria della Scaletta” che oggi porta il suo nome, commissionò la costruzione dell’Osservanza, data la necessità di disporre di nuovi spazi. Tale struttura, iniziata nel 1885, fu ultimata nel 1890. Inizialmente quello che poi si chiamerà ospedale Lolli e allora veniva detto “il manicomio centrale” ospitava il reparto accettazione e in generale i casi acuti, la nuova struttura dell’Osservanza ospitava “Gli incorreggibili” intendendo con questo ogni tipo di cronicità. Successivamente, dopo la vendita del manicomio centrale alla provincia di Bologna ognuno dei due ospedali gestì in autonomia acuti e cronici, suddivisi in base ai territori di provenienza: il manicomio centrale ospitava i pazienti residenti a Imola e nella provincia di Bologna, l’Osservanza i pazienti provenienti dalle province della

Romagna. Alla fine della riorganizzazione voluta da Luigi Lolli, il manicomio centrale ospitava 700 persone, l’Osservanza 400. Il totale di 1.100 ospiti aumentò fino a 1.500 alla fine del secolo.

Con il passaggio dell’amministrazione della città dalla giunta liberale a quella repubblicana e socialista, non ci furono sostanziali mutamenti nella gestione dell’assistenza psichiatrica a Imola. La nuova giunta, guidata da Luigi Sassi si adoperò per attenuare le differenze di trattamento fra i degenti che erano a carico dell’assistenza pubblica e quelli paganti, per rendere più accessibili le rette, per migliorare le condizioni generali di trattamento, ma continuò sostanzialmente sulla scia delle impostazioni precedenti. Infatti, sebbene il manicomio ospitasse disadattamenti e devianze di vario genere, che in una diversa organizzazione sociale avrebbero potuto essere collocate in altro modo, per i disturbi psichici veri e propri e in particolare per quelli più gravi, sarebbe stata impensabile una ricollocazione in famiglia o in altra condizione sociale in assenza di trattamenti farmacologici specifici. Alla fine dell’800, era diventato dominante il pensiero di Cesare Lombroso, medico, psichiatra e criminologo, che riteneva la pazzia una conseguenza di alterazioni organiche, spesso ereditarie e tendenzialmente irreversibili.

Le sue teorie in gran parte infondate influenzarono notevolmente l’opinione pubblica dell’epoca, portando i più a ritenere che i portatori di tali “tare” dovessero essere isolati dai presunti sani per un tempo indefinito. Si giunse così alla promulgazione della legge 1904. Questa legge, che si proponeva di uniformare i trattamenti psichiatrici in tutto il territorio nazionale, fu proposta dal noto statista Giovanni Giolitti, che successivamente diverrà Presidente del Consiglio, quando era Ministro dell’Interno. Prima del 1904 i trattamenti delle varie aree del paese risentivano dell’influenza delle vecchie normative vigenti negli stati preunitari e le uniche regolamentazioni nazionali erano costituite dagli articoli 98 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 e 124 del regolamento amministrativo n.99 del 5 febbraio 1891. Il fatto che la regolamentazione dei ricoveri psichiatrici fosse affidata al ministro dell’interno era coerente con lo spirito dei tempi e con gli intendimenti della legge, che privilegiava la tutela della società rispetto alle necessità di cura del paziente. Secondo questa legge, infatti, si veniva ricoverati obbligatoriamente in caso di pericolosità (per sé o per gli altri) o in caso di messa in atto di comportamenti di disturbo della quiete pubblica o di pubblico scandalo. Il ricovero avveniva dietro richiesta di un solo medico, che poteva agire per segnalazione di chiunque, veniva disposto dalle autorità di pubblica sicurezza ed eseguito dalla forza pubblica. Dopo un periodo di permanenza di 30 giorni nel reparto di accettazione, si veniva inviati ai reparti di lungodegenza dai quali la dimissione era oltremodo difficile (fra l’altro occorreva la firma di un familiare che si assumesse la responsabilità dei comportamenti del paziente). In sostanza, la legge rendeva estremamente facile entrare in manicomio ma rendeva molto difficile uscirne. Fu in quel periodo che, considerando il manicomio ancora un satellite dell’ospedale civile, a Imola fu coniato il detto: “Santa Maria della Scaletta, l’entrata larga, l’uscita stretta”. Inoltre, tale legge collocava la psichiatria in un’area ambigua, situata a metà strada fra la sanità e i provvedimenti di ordine pubblico.

Purtroppo, questa legge, particolarmente restrittiva della libertà individuale, non fu più modificata per

60 anni. In questo periodo di tempo, come è ovvio, le presenze aumentarono ulteriormente (fino a raggiungere nei manicomi imolesi un totale di 3000 unità) ma, mentre nell’800 ad un aumento dei pazienti corrispondeva un incremento delle strutture e delle persone addette all’assistenza, dal 1904 le strutture imolesi e le risorse per gestirle, non furono più modificate, creando gravi problemi di affollamento e di carenza di personale. In sostanza, fu l’immobilismo legislativo e il suo fossilizzarsi nel tempo a fare del manicomio quella struttura oppressiva che abbiamo conosciuto.

I servizi psichiatrici del dopo riforma: il servizio psichiatrico di diagnosi e cura.

I servizi territoriali

Nel 900, come nel secolo precedente, i mezzi per curare le malattie mentali restavano pochi: dopo i bromuri e i carbamati, erano stati sintetizzati i barbiturici, anch’essi dotati soltanto di effetto sedativo aspecifico e inoltre responsabili di gravi effetti collaterali. In assenza di provvedimenti di sicura efficacia, venivano applicate le pratiche più svariate: negli anni 30, ebbero grande fortuna sia l’elettroshock che la lobotomia (il primo inventato dall’italiano Ugo Cerletti, il secondo praticato per la prima volta dal portoghese Antonio Egas Moniz). Pur essendo queste tecniche nel migliore di casi inutili, spesso anche dannose, i due scienziati concorsero nel 1949 all’assegnazione del premio Nobel per la medicina, vinto poi dal portoghese. Questo ci fa capire quanto, in tutto il mondo, il modo di rapportarsi alle malattie mentali fosse distante da quello odierno. Dopo il 1950, la situazione cambiò radicalmente: a partire da ricerche sugli anestetici, furono scoperte, in modo del tutto casuale, le prime sostanze ad effetto antipsicotico, in grado di ridurre le allucinazioni e i deliri. Poco dopo entrarono in uso i primi farmaci in grado di contrastare la depressione dell’umore e infine per l’ansia e l’insonnia si iniziarono a usare le benzodiazepine, molto meglio tollerate dei barbiturici.

La possibilità di utilizzare queste sostanze permise di ritornare a una concezione ottimistica della malattia mentale, considerata curabile e reversibile. Fra il 1965 e il 1968, il ministro della sanità Mariotti promosse diverse novità legislative miranti alla riorganizzazione degli ospedali e di tutti i servizi sanitari. Nell’ambito di questo rinnovamento, furono istituiti i Centri Diagnostici Neuropsichiatrici.

Queste erano strutture ospedaliere più flessibili, dalle quali, anche dopo una permanenza lunga, era possibile essere dimessi. Se le nuove leggi ebbero il limite di non andare a incidere sulla qualità dei trattamenti all’interno dei manicomi, tuttavia, affiancando ad essi strutture concorrenziali, più rispettose della libertà e dei diritti dei pazienti, rappresentarono comunque un progresso.

Inoltre, seppure timidamente aprirono la strada ai servizi territoriali (pur non fissandone con precisione i requisiti e le caratteristiche). Il fatto poi che anche le innovazioni legislative inerenti le cure per i malati di mente fossero affidate al ministro della sanità, mentre la precedente legge era stata promulgata dal ministro dell’interno, restituì alla psichiatria la dignità di specializzazione medica, rivolta alla cura del paziente, togliendola da quell’area grigia, sospesa fra sanità e tutela dell’ordine pubblico, che le affidava anche compiti di controllo sociale.

In seguito a queste leggi sorsero a Imola il Centro Diagnostico Neuropsichiatrico “Silvio Alvisi” che, analogamente all’ospedale Lolli accoglieva i pazienti locali e la “Villa dei Fiori” che accoglieva i pazienti della Romagna. Il confronto con le nuove strutture fece sì che anche all’interno dei manicomi parte del personale più attento (sia medico che infermieristico), cominciasse a concepire l’idea di una riabilitazione attiva volta al reinserimento dei pazienti a domicilio.

In quest’ottica, nel 1975, nacque a Imola il centro di salute mentale. Il susseguirsi dei cambiamenti portò poi alla promulgazione della legge 180/1978 che costituisce la base della legislazione psichiatrica tuttora vigente. Contrariamente a quanto viene comunemente affermato, questa legge non sancì la chiusura dei manicomi (che infatti continuarono ad esistere almeno per altri 15 anni) ma proibì semplicemente i nuovi ingressi, stabilendo che tutti i ricoveri per malattia mentale dovessero avvenire nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, da istituirsi presso gli ospedali generali, con una capienza non superiore ai 15 posti letto.

Stabilì inoltre che i ricoveri anche obbligatori avvenissero in base alle necessità di cura del paziente e non a tutela della società e dell’ordine pubblico e che i Trattamenti Sanitari Obbligatori necessitassero di un medico proponente, che può essere tuttora qualsiasi laureato in medicina abilitato all’esercizio della professione e di un medico convalidante, che deve essere necessariamente un dipendente pubblico, con l’avvallo finale del sindaco del comune di residenza. Fissò anche la durata del ricovero obbligatorio a un massimo di 7 giorni, imponendo condizioni assai restrittive per gli eventuali rinnovi. Queste nuove norme fecero sì che il ricorso al ricovero in psichiatria divenisse del tutto eccezionale.

Per non lasciare vuoti nella cura e nell’assistenza, fu necessario ridisegnare completamente le funzioni del centro di salute mentale territoriale. Nel dicembre 1978 la legge 180 relativa all’assistenza psichiatrica fu inglobata nella legge 833, voluta dal ministro della sanità Tina Anselmi. Questa legge riformò profondamente la Sanità in tutti i suoi aspetti. I suoi principi fondanti erano UNIVERSALITÀ, UGUAGLIANZA, EQUITÀ. Furono unificate tutte le mutue e i trattamenti da esse erogati. Venne sancito il concetto di salute come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività. La legge 833 ha demandato tutti gli aspetti della sua attuazione (compresi quelli inerenti la psichiatria) alle

Regioni. Al momento della sua entrata in vigore nel 55 per cento delle province italiane esisteva un ospedale psichiatrico pubblico, il 18 per cento si avvaleva di istituzioni private e il 27 per cento inviava i propri cittadini in altre province. La riorganizzazione dei servizi resa necessaria dalla nuova legge fu imponente e richiese per l’attuazione uno sforzo prolungato nel tempo: a Imola la cessazione degli ingressi nei manicomi, in deroga alla legge, diventò effettiva solo dopo il 31 dicembre 1980. Fino a quella data potevano ancora essere ricoverati in manicomio “i recidivi” cioè i pazienti che avevano già avuto un ricovero manicomiale. Solo al 1° gennaio 1981 i ricoveri manicomiali cessarono definitivamente. Nel 1983, tutti i degenti che ancora si trovavano nei manicomi imolesi (circa 1500 persone) furono trasferiti all’Osservanza e i locali del Lolli, data la forte necessità di spazi per l’espansione dei servizi sanitari conseguente alla riforma, furono destinati a servizi non psichiatrici. Lo sforzo per la riorganizzazione dei nuovi centri di salute mentale territoriali, nei quali confluì spesso il personale psichiatrico più motivato, segnò paradossalmente una nuova battuta di arresto nella riabilitazione della lungodegenza manicomiale. Solo nel 1994 furono messi in atto interventi mirati al reinserimento degli ultimi pazienti dei manicomi nella società e solo nel 1996, con il ritorno in famiglia dei pazienti che ancora ne avevano la possibilità e l’inserimento dei restanti in apposite residenze terapeutico-riabilitative extra manicomiali si arrivò alla chiusura definitiva dell’Osservanza.

Il centro di salute mentale, nel frattempo, cambiò completamente la sua organizzazione e i suoi obiettivi. Essendo stato istituito con lo scopo di riportare fuori dalle strutture i pazienti che avevano già avuto almeno un ricovero psichiatrico, dovette affrontare il problema della nuova utenza e della organizzazione dei trattamenti prevalentemente a livello territoriale, facendo da filtro ai ricoveri per ridurli in conformità con la nuova legge e in linea con la drastica riduzione delle strutture disponibili. Mentre un tempo l’utenza era costituita prevalentemente da psicotici gravi, progressivamente affluirono al servizio anche i disturbi depressivi e gli stati d’ansia. Iniziarono inoltre a essere indirizzati al centro gli abusi di sostanze (soprattutto l’etilismo), che allora non trovavano altre risposte e i problemi dell’adolescenza (all’epoca della promulgazione della legge 833, i servizi per l’infanzia, per altro assai deboli, coprivano la fascia da 0 a 16 anni e il centro di salute mentale adulti, pur essendo in teoria dedicato agli utenti di età superiore ai 18 anni, finiva per farsi carico anche di utenti di età inferiore). Il CSM (Centro di Salute Mentale) era costituito da medici e infermieri e le sue prestazioni consistevano prevalentemente in visite ambulatoriali e domiciliari. Come primo passo per diversificare i trattamenti, venne sviluppato l’uso delle psicoterapie, sia individuali che di gruppo. Fu creata un’attività di psicoterapia familiare ad indirizzo relazionale- sistemico e per fornire supporto alle famiglie, che data la riduzione dei ricoveri erano a contatto con i pazienti costantemente, si istituì anche un gruppo di discussione per i familiari degli utenti del servizio secondo i canoni delle strategie psicoeducative.

Sebbene le psicoterapie fossero condotte anche dagli psichiatri, si rese necessaria e diventò sempre più importante la figura degli psicologi. Si pose anche il problema di aiutare i pazienti a mantenere la propria attività o a reinserirsi nel mondo del lavoro qualora ne fossero stati espulsi a causa della malattia e, allo scopo di perseguire questi obiettivi nel modo più efficace, fecero l’ingresso nel servizio gli Assistenti Sociali. Nonostante la formazione di équipe multiprofessionali, restava tuttavia difficile rispondere a tutti i bisogni dell’utenza senza ricorrere, se non in minima parte, allo strumento del ricovero. Furono quindi sviluppate le funzioni di consulenza, sia verso l’ospedale generale, che verso i medici di base, al fine di poter trattare i casi affetti da patologie psichiche più lievi nei contesti sanitari non psichiatrici.

Quanto al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e cura, nell’impossibilità di crearlo ex novo all’ospedale civile, fu temporaneamente collocato presso la “Villa dei Fiori”, dove continuavano ad affluire ancora i pazienti della Romagna. Anche in questo caso quindi, come per i ricoveri in manicomio, Imola fu costretta ad agire in deroga alla legge. La sede del CSM, che si trovava all’ex istituto psicopedagogico “Sante Zennaro”, che era stato un reparto psichiatrico per bambini, fu collocata anch’essa vicina al SPDC. Questo da un lato ebbe il vantaggio di favorire un coordinamento forte fra servizio psichiatrico territoriale e ospedaliero, ma ebbe lo svantaggio di collocare il servizio territoriale in un ambiente che agli occhi della popolazione evocava ancora i vecchi luoghi di ricovero precedenti alla riforma.

Il CDN “Silvio Alvisi” nel frattempo era stato chiuso e il personale riutilizzato nelle restanti strutture. Verso la metà degli anni 90, nonostante gli entusiasmi suscitati inizialmente dalla nuova legge, che avevano portato a sopravvalutare l’effetto negativo dei manicomi nel causare cronicità, apparve chiaro che un numero rilevante dei nuovi utenti, che non erano mai stati nelle vecchie istituzioni, necessitavano anch’essi di trattamenti prolungati nel tempo. Pur con riluttanza, si cominciò a parlare di nuova cronicità. A Imola, data la precedente storia manicomiale, vi erano forti resistenze rispetto all’apertura di nuove strutture, che si temeva tornassero a somigliare a quelle precedenti. Per questo motivo la prima struttura

deputata ai trattamenti prolungati, fu definita “polifunzionale”, cioè, destinata a svolgere attività sia sanitarie che riabilitativo-risocializzanti. Lo scopo era quello di rispondere a esigenze diverse con una sola articolazione del servizio, evitando duplicazioni che si ritenevano dannose. Successivamente, avendo questa organizzazione dimostrato i suoi limiti, si creò un vero e proprio Day Hospital per le prestazioni sanitarie e un centro diurno per le restanti attività. Con questo nuovo assetto entrarono a fare parte del CSM anche gli educatori e in seguito i tecnici della riabilitazione psichiatrica. Nel frattempo, data l’istituzione dei SERT <SERVIZIO TOSSICO DIPENDENZE> (per il trattamento di alcolismo e altri abusi di sostanze) e il potenziamento dei servizi per l’infanzia, finalmente i CSM ebbero la possibilità di dedicarsi ad una utenza più specifica. Le necessità dei pazienti richiesero poi l’apertura anche di comunità terapeutiche per trattamenti riabilitativi o risocializzanti in regime residenziale. Cessati gli ingressi dalle zone della Romagna, che nel frattempo si erano dotate di loro SPDC <SERVIZIO PSICHIATRICO DI DIAGNOSI E CURA), anche il reparto imolese fu collocato presso l’ospedale civile, ottemperando finalmente alla legge di riforma e il CSM fu trasferito presso l’ex Lolli, che ormai aveva perso le sue connotazioni manicomiali e ospitava, come a tutt’oggi, strutture sanitarie diverse. La vecchia “Villa dei Fiori” fu completamente demolita. Oltre a questa trasformazione estremamente complessa, sul finire degli anni 90, le Unità Sanitarie Locali, nate in seguito alla legge 833, diventarono Aziende Sanitarie Locali, con il fine di conciliare l’esigenza di erogare le prestazioni più appropriate per la popolazione con l’esigenza del contenimento della spesa, che non poteva essere dilatata all’infinito. Oltre al concetto di efficacia (erogazione della prestazione che raggiunga lo scopo), si fece strada il concetto di efficienza (raggiungimento dello scopo al minor costo possibile). Tutto questo ha reso necessaria la continua riconversione delle strutture, un continuo adeguamento delle mansioni del personale ai mutamenti del momento e di conseguenza una formazione permanente per consentire di svolgere al meglio mansioni sempre più complesse.

Riflessioni a più di 40 anni dalla legge 180/1978.

Che cosa è stato fatto, che cosa resta da fare.

A distanza di tanti anni dalla promulgazione della legge, al di là dei toni trionfalistici con i quali vengono celebrate le ricorrenze della chiusura dei manicomi, si impongono alcune riflessioni: è caduta l’illusione di poter trattare la malattia mentale come una specie di influenza o, nel peggiore dei casi, come una polmonite (tale illusione, basata sul pregiudizio ideologico che fosse il manicomio a creare la cronicità, fu coltivata magari in maniera inconscia e inconfessata da molti psichiatri giovani ed entusiasti che si trovarono a lavorare nel primo periodo del dopo riforma). Preso atto di ciò, in tutti i luoghi nei quali è stata più alta la volontà di applicazione della legge (Imola compresa) è sorta una rete di strutture deputate all’effettuazione dei trattamenti a lungo termine.

In alcune parti d’Italia invece, dato che l’applicazione della riforma è stata demandata alle regioni, si sono create situazioni di disomogeneità: in certe zone non vi è un’articolazione completa delle strutture tale da rispondere a tutti i bisogni dell’utenza, con il rischio di abbandonare i pazienti a se stessi, come in situazioni di antica memoria; in altri casi si è fatto largo ricorso alle strutture private, con tutto quello che questa scelta comporta. Secondo le opinioni più critiche nei confronti della legge 180, essa ha portato semplicemente a una privatizzazione dell’assistenza psichiatrica.

Anche nei casi in cui le strutture risultano sufficienti, occorre una continua tensione verso il rinnovamento: l’applicazione della legge è stata raggiunta infatti non solo attraverso profondi mutamenti organizzativi, ma anche attraverso grandi cambiamenti di prospettiva culturale nell’approccio alle malattie mentali. Una cristallizzazione dello stato attuale delle modalità di cura, magari cullandosi nell’illusione che esse abbiano raggiunto la perfezione, rischierebbe pertanto di fare perdere di vista la necessità di adeguarsi al mutamento continuo dei tempi, ripetendo così gli errori che furono del manicomio e configurando così il semplice passaggio dal manicomio centralizzato al “manicomio diffuso”. Anche l’aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali può costituire un fattore di rischio: infatti, se da un lato il problema della compatibilità economica per il raggiungimento degli obiettivi è sempre esistito ed è necessario tenerne conto, una interpretazione eccessivamente restrittiva di questo concetto può comportare uno strozzamento dei servizi pregiudicandone seriamente il raggiungimento dei risultati. L’adeguamento continuo dei servizi, è reso sempre più necessario anche dall’ulteriore evoluzione dell’utenza: se in passato la maggiore richiesta di intervento proveniva dai disturbi psicotici gravi, poi si è passati al trattamento dei disturbi nevrotici (ansia, depressione), oggi i servizi si confrontano soprattutto con l’emergere dei disturbi di personalità, i cui portatori presentano spesso una doppia diagnosi (disturbo psichiatrico più abuso di sostanze o disturbo del comportamento alimentare anoressia o bulimia).

Questo fa sì che i servizi territoriali (CSM, SERT, servizi per l’infanzia e per l’adolescenza), pur mantenendo chiarezza sulla specificità dei compiti di ognuno, debbano coordinarsi fra loro per affrontare al meglio i casi più complessi. Altro tema che resta di scottante attualità è quello della comprensione dei disturbi psichici nella loro articolazione bio-psico-sociale. Se infatti la medicalizzazione della psichiatria l’ha sottratta all’area ambigua del controllo sociale, non bisogna dimenticare che la terapia farmacologica (anche la più perfetta e sofisticata), non esaurisce il problema della giusta risposta alla sofferenza psichica. Questa complessità delle problematiche dei disturbi mentali emerge in misura ancora più evidente nel settore della prevenzione.

In tutti i settori della medicina essa viene distinta in PRIMARIA, spesso intesa come diagnosi precoce, SECONDARIA, cioè l’evitamento delle recidive dopo un primo episodio grazie all’applicazione della miglior cura possibile e TERZIARIA, coincidente con le pratiche riabilitative, volte a prevenire la cronicizzazione. Se riguardo alle ultime due si è raggiunto un sufficiente consenso su come debbano essere applicate in psichiatria, il tema della prevenzione primaria è tuttora molto aperto e si presta a molteplici interpretazioni. Nei compiti di cura e riabilitazione, inoltre, vengono coinvolti spesso i gruppi di auto- mutuo aiuto e le associazioni dei familiari dei pazienti ma, nella prevenzione primaria questo coinvolgimento, pur necessario, non è tuttavia sufficiente. Il tema della prevenzione primaria rimanda infatti a quello degli stili di vita: la Salute Mentale, non deve essere confusa con la Psichiatria in senso stretto.

La Salute Mentale è promossa sia dagli psichiatri che dall’organizzazione sociale. Diverse tipologie di società spingono verso diverse modalità di funzionamento psichico: riguardo al disagio giovanile, per esempio, l’organizzazione familiare e i ritmi di lavoro, che spesso non consentono di stare insieme a lungo anche fra componenti di uno stesso nucleo, possono costituire fattori di rischio. Allo stesso modo,

le nuove tecnologie, se applicate in modo distorto, possono portare a perdersi nella fascinazione del mondo virtuale fino al distacco dalla realtà; lo svolgimento di attività manuali e l’applicarsi alla soluzione di problemi pratici, possono costituire un buon antidoto. Grande importanza hanno nel determinare l’equilibrio della popolazione giovanile, che poi si ripercuoterà nella vita adulta, le istituzioni scolastiche in tutte le loro svariate articolazioni. Inoltre, nella complessa dinamica fra fattori individuali (punti di forza e punti di debolezza) e fattori ambientali (favorevoli o sfavorevoli) è stato osservato che, a parità di eventi stressanti o avversi, tendono a sviluppare maggiore disagio coloro che mancano di relazioni sociali di supporto. È quindi auspicabile, per un buon equilibrio psichico, coltivare interessi molteplici e avere una vita di relazione ricca e articolata. L’uomo deve essere visto come una “margherita”: la corolla è composta di tanti petali, tutti di dimensioni circa equivalenti. In questo modo, anche dopo la perdita di uno di essi, la corolla continua a fare la sua funzione. Se, invece, uno di questi diventa ipertrofico, cioè molto più grande degli altri, la sua perdita cambierà in modo sostanziale le caratteristiche del fiore. Parlando fuor di metafora, se un individuo attribuisce eccessiva importanza al lavoro, considerandolo lo scopo principale della sua vita, al momento della pensione soffrirà di più di chi, coltivando altri interessi (hobby, amici) potrà rivolgere le sue attenzioni altrove. Gli esempi in proposito potrebbero essere infiniti e riguardare ogni aspetto della vita di una persona. Concludendo con queste considerazioni si può affermare che il problema del benessere psichico è tuttora molto aperto e che i cambiamenti normativi e organizzativi, se hanno permesso di risolvere i problemi e le storture del passato, ci pongono però, come in qualsiasi campo delle attività umane, di fronte a problemi nuovi.

Breve passeggiata negli spazi dell’Osservanza

Perché una passeggiata negli spazi dell’Osservanza, al termine di un corso sulla storia della psichiatria imolese fatto di incontri teorici, tenuti per così dire “a tavolino”?

L’importanza del camminare in un dato luogo per appropriarsi meglio delle sue caratteristiche e della sua storia è già stata descritta da Gianni Biondillo in “Sentieri Metropolitani” Edito da Bollati Boringhieri. La passeggiata, iniziando dalla portineria, permette di apprezzare la vicinanza con l’omonimo convento. I Francescani degli inizi, si erano successivamente suddivisi in “conventuali” che pensavano alla gestione anche economica del convento (analogamente a Benedettini o Domenicani) e “spirituali”, dediti alla preghiera e alla pratica rigorosa del voto di povertà. Ritenendosi questi ultimi i veri depositari della regola originale di San Francesco, si autodefinivano “osservanti” ed essendo questi la maggioranza nel convento imolese questo veniva detto dell’Osservanza. Quando la Congregazione di Carità che amministrava gli ospedali imolesi decise di procedere all’ampliamento dell’ospedale psichiatrico, acquistò il terreno dal convento: da qui il fatto che il nuovo “stabilimento manicomiale” ne prese anche il nome.

In prossimità della portineria vi sono le aree di servizio: lavanderia, guardaroba, magazzini, direzione medica. Poco più avanti, la sede degli ispettori e gli ambulatori odontoiatrico e oculistico. L’ospedale era concepito come città nella città e doveva essere il più possibile autonomo nei suoi servizi; questo consentiva agli utenti di avere tutto il necessario all’interno, ma serviva anche a limitare le uscite e i contatti con l’esterno. Verso la casa di riposo si trova il settore delle botteghe artigiane, dedicato all’ergoterapia (terapia occupazionale). Qui i pazienti, con l’aiuto di istruttori esperti imparavano a riparare scarpe, confezionare cappelli, fare borse di rafia e molte altre attività. L’altra area dedicata al lavoro era verso l’attuale scuola del Tiro a Segno, ove si trovava la colonia agricola; ne resta qualche traccia nella zona delle serre e delle voliere (ormai fatiscenti, come le botteghe). Mentre le zone di servizio erano di forma molto semplice (sostanzialmente dei parallelepipedi), i padiglioni di degenza, su due piani, erano a U, con un corpo centrale e due rami laterali, che circoscrivevano il giardino, dove i degenti potevano stare all’aperto nella bella stagione. L’alberatura era di pregio ed è tuttora un patrimonio verde fruibile da tutta la città. Ogni spazio (di degenza o di servizio) aveva caratteristiche tali da renderne, già a prima vista, evidente la destinazione. Abbiamo già detto dell’importanza che veniva data alla progettazione di questi luoghi e dei motivi ai quali si ispirava. Sui muri vi sono vecchi graffiti fatti dai degenti, pitture raffiguranti soli, uccelli e altre immagini, risalenti al tempo in cui dall’esterno venivano invitati artisti per abbellire il luogo, con il contributo creativo dei pazienti, poesie ispirate ai passanti dalle caratteristiche del luogo e dal ricordo di ciò che era stato. Non mancano purtroppo anche le scritte senza senso e le deturpazioni vandaliche. Lo stato attuale dei luoghi è ampiamente descritto nel fotolibro pubblicato dal Comitato Bella Osservanza in collaborazione con le edizioni “Nuovo Diario- Messaggero”.

Dato che è prevista la riqualificazione di questi spazi e il loro riutilizzo, un giorno anche la descrizione dello stato attuale del luogo apparterrà alla storia della città di Imola.

Dottor Giovanni Giovannini