di Antonio Tabucchi
Lisbona città scintillante nell’azzurro e nel vento che soffia dall’Atlantico, con le sue viuzze e i piccoli caffè, i suoi edifici a tinte pastello e le corse in tram, odori che galleggiano nell’aria. L’estate è sfavillante ci dice Antonio Tabucchi che ne fa ambientazione per questo suo romanzo.
Siamo nel 1938, precisamente la storia inizia il 25 luglio del 1938 e racconta un mese esatto nella vita di Pereira, attempato giornalista. Dopo l’esperienza di tanti anni nella cronaca nera, si trova a dirigere la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, il Lisboa, per il quale produce pezzi inusuali, piccoli necrologi, elogi funebri ed estratti di opere di grandi autori francesi dell’Ottocento (da pubblicare a puntate) di cui personalmente cura la traduzione.
E’ un uomo complicato, vedovo da poco, che della sua immensa solitudine ha costruito una bolla nella quale sopravvive. Fa fatica a tenere i contatti con la realtà, la sua mente è assorbita dai dilemmi che la depressione fa emergere, riflessioni sulla morte, insieme a dubbi su principali dogmi della fede, trova sollievo nel far due chiacchiere con la foto incorniciata della moglie. La sua pinguedine mette in rilievo i danni di una certa trascuratezza e lo ritroviamo spesso colto dall’affanno nelle sue brevi passeggiate in città. E in quel mese l’affanno era anche determinato in Pereira da un cambiamento che riscontrava nelle strade in cui si respirava un’aria pesante per la presenza costante di numerose camionette della Guardia National.
Di recente i soldati avevano massacrato nella piazza un giovane socialista, carrettiere del mercato e il suo giornale non aveva avuto il coraggio di dare la notizia e nessuno in giro ne parlava.
E’ troppo forse per un uomo che soffre da solo, non si rende neppure conto dell’accaduto salvo per ricongiungere il fatto al suo personale rapporto con la morte, “c’è puzza di morte, l’Europa puzza di morte”. La vita, la morte, l’esistenza, contenuti in un breve articolo di giornale estratto dalla tesi di laurea di un certo Monteiro Rossi alimentano le sue riflessioni e prende interesse fino a rintracciarlo e offrirgli un incarico come suo collaboratore al giornale. L’incontro determina una elaborazione del dubbio, si accentuano sentimenti contrastanti sul dovere, le regole, le norme, la normalità.
L’autore sviluppa la storia dando spazio al carattere dei protagonisti: Monteiro Rossi, laureato in filosofia, la sua fidanzata Marta, il dottor Cardoso medico di una struttura termale che Pereira frequenterà, don Antonio un parroco originale che Pereira vede una volta al mese, un tipo originale che non riesce a condividere le idee del Vaticano “ma non sa opporsi” e il cugino di Monteiro a dare ancora più forza allo sviluppo della storia.
Così se mentre Monteiro Rossi insieme a Marta lo portano a bucare la bolla in cui vive, vediamo la sua irritazione anche al solo dubbio che la sua comfort zone non sia più la stessa, insieme alla paura e alla esigenza di non mettersi in mostra, riconosce ai due giovani coraggio e tanta irresponsabilità oltre a un pericolo incombente. I colloqui con il suo medico, il dottor Cardoso, scalfiscono le sue certezze, la personalità, il nostro essere, l’anima che sa prendere il sopravvento e la certezza che si dovrà attendere che sia la Storia a dare o meno ragione dei fatti e delle scelte individuali. Cardoso gli apre gli occhi sul fatto che in quel momento Pereira non può essere convinto che il suo giornale sia un giornale indipendente, che il buon direttore sia libero e non un braccio del regime, una buona persona sì, che lo aveva sempre lasciato libero di scrivere la pagina culturale senza imporgli nulla, anche se è vero che tutto sarebbe poi passato sotto l’imprimatur di una censura preventiva, come in altri giornali portoghesi, rifletteva Pereira, che spesso uscivano con ampi spazi bianchi.
Il soggiorno nella clinica talassoterapica del dottor Cardoso fu salutare sotto molti punti di vista e questa nuova energia lo ricondusse a Lisbona più sereno, in quel mese di agosto nella calura della città, nelle soste nei caffè a rinfrancarsi di limonata ghiacciata ritrova il filo dei suoi pensieri. E se Pereira ci fa incrociare Balzac, Daudet, D’Annunzio, Bernanos con il suo Diario di un prete di campagna oltre a Rilke e Garcia Lorca, ci svela come un uomo può avere bisogno di cambiare il suo punto di vista. Lo fa attraverso don Antonio, che mette il nostro giornalista di fronte alla riflessione che in un grave momento ognuno deve fare la sua scelta, e molti fatti sono lì a disposizione di chi li vuole analizzare, come il problema del clero basco aderente allo schieramento della reazione a favore di Franco, il bombardamento di Guernica, la presa di posizione dello scrittore francese Bernanos prima sedotto dal franchismo ma che presto pubblica feroci note sulla partecipazione dei militari portoghesi andati a combattere per Franco, e gli italiani che in Spagna si sono comportati in modo ignobile.
Tutto questo nonostante il bisogno di essere rassicurato e il senso profondo di nostalgia, accompagna l’amara consapevolezza sui prodromi di una dittatura in Portogallo, quella di un governo autoritario che durò fino al 1974. Saranno i personaggi che gli ruotano intono e i fatti di cui prende coscienza a determinare le scelte che sconvolgono la vita.
Sentiamo il profumo delle omelette alle erbe aromatiche servite al Cafè Orchideé, ci sembra di accarezzare il bicchiere ghiacciato della sua limonata, sentiamo il peso della Storia che incombe, passando dagli eventi che lo coinvolgeranno.
I capitoli del romanzo si aprono e si chiudono invariabilmente con la formula sostiene Pereira che fa da titolo al libro, quasi un mantra o addirittura un monito che ci invita a tenere gli occhi ben aperti.
Maria Rosa
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