Un estratto dalla lezione di Carmen Dal Monte del 17/02/2012 corso di filosofia A.A. 2011-2012
“Occhio per occhio, dente per dente? I filosofi, la giustizia e la politica”
Trascrizione a cura di Gigliola Varani
Introduzione
Voltaire ha un ruolo da grande padre dell’illuminismo; non ha e non vuole avere la profondità filosofica di un Diderot o di un d’Alembert (Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert -1717 – 1783); egli è in qualche modo il più rinascimentale degli Illuministi, cioè ha molteplici interessi, si diletta di moltissime cose, tende alla completezza più che alla profondità delle sue conoscenze, ma soprattutto è influenzato dalle sue capacità di drammaturgo e di scrittore e dalla spinta e dalla passione che ha per la divulgazione. Voltaire è assolutamente certo che portare la conoscenza al più ampio numero di persone sia il compito più importante di un uomo che pensa al bene dell’umanità, inoltre per la prima volta nella storia della cultura, le prime opere sono dedicate al grande pubblico.
Cosa vuol dire che le opere sono destinate a un grande pubblico? Vuol dire che non sono trattati sistematici, come ad esempio quelli di Cartesio (René Descartes -1596-1650) o di Galileo Galilei (1564-1642), ma sono saggi. A volte sono allegorie, a volte sono racconti che hanno lo scopo di descrivere e criticare il sistema politico, come le “Lettere ai persiani” di Montesquieu.
Ancora, l’Illuminismo sottopone le passioni ad analisi; d’altra parte anche l’intolleranza è considerata un moto passionale che va decostruito per capirne le ragioni e le origini e per opporre all’intolleranza invece il ruolo della ragione, che diventa anche un ruolo catartico.
L’Illuminismo e la tolleranza
Uno degli aspetti importanti a salvaguardia della libertà civile per Voltaire è il rifiuto del fanatismo e il riconoscimento della tolleranza come metodo universale di coesistenza. Il fanatismo – dice Voltaire – “non è niente altro che il dogmatismo e l’assolutismo portati alle loro estreme conseguenze, perché si identificano non solo con la certezza di possedere l’unica verità possibile al mondo, ma anche con la persuasione che essa vada imposta agli altri con la forza”; quindi, dice Voltaire, “il fanatismo è la vittoria della bestia dogmatica e violenta che è in noi, mentre la civiltà si identifica con la libertà e con la tolleranza, ossia con l’accettazione del diverso e l’ammissione sia teorica che pratica, che di fronte al mondo è possibile una pluralità di atteggiamenti; e quindi bisogna fare uno sforzo per fare coesistere, nel comune rispetto di certi valori sociali di fondo, la varietà delle convinzioni filosofiche, politiche e religiose, evitando di tornare al tempo in cui l’unica legge di comportamento era la soppressione dell’altro, del diverso”.
Voltaire deriva il Trattato sulla tolleranza da Locke, però lo estende, perché Locke era tollerante fino a un certo punto: egli sosteneva che tutti gli individui avevano il diritto di vivere in società, tranne i cattolici – considerati inaffidabili come cittadini, dovendo giurare fedeltà al papa (negli Stati Uniti, ad esempio, è stato un problema per Kennedy essere cattolico), gli atei – perché non avevano paura di andare all’inferno, quindi non ci si poteva fidare di loro (nell’idea di un’antropologia per la quale se non ti minacciano non fai il tuo dovere), gli ebrei – perché essendo cosmopoliti sono inaffidabili dal momento che cambiano spesso paese.
Fortunatamente il concetto di tolleranza illuminista volterriano è molto più esteso, perché comprende anche le tre categorie escluse da Locke. Voltaire tende a generalizzare la nozione di tolleranza civile, cioè non la limita ad una dimensione religiosa, ma la estende ad ogni tipo e forma di attività umana: mentre fino a Voltaire il problema della tolleranza era storicamente legato al problema religioso, lui sostiene che devono coesistere non solo uomini con religioni diverse, ma anche con altre diversità. Non è cioè possibile basare l’idea della tolleranza esclusivamente nell’ambito religioso; anche perché questo l’avrebbe posto in contraddizione con tutto quello che diceva altrove: se uno dei suoi punti cardine è la decostruzione del potere religioso, è chiaro che non lo mantiene solo nell’ambito della tolleranza, se no questo rappresenterebbe una evidente contraddizione.
L’esigenza del rispetto reciproco delle credenze diverse ha rappresentato anche uno dei fondamenti teorici della delineazione illuminista di uno Stato laico, cioè di uno Stato che, nel momento stesso in cui riesce a proclamare l’autonomia delle istituzioni pubbliche da una religione, diventa al contempo il garante dell’uguaglianza di tutte le religioni; e quindi nel momento in cui c’è uno Stato che non aderisce ad una visione del mondo o ad una filosofia, è chiaro che può tranquillamente concedere lo spazio a tutte le filosofie e a tutte le visioni del mondo, di coesistere nel rispetto del primo principio fondamentale – che, secondo Voltaire, è poi l’unico – quello della tolleranza.
Insieme allo Stato laico, l’Illuminismo sostiene anche il concetto di uno Stato di diritto, quindi sviluppa la tesi in cui in uno Stato non devono governare gli uomini, ma le leggi, perché le leggi sono gli strumenti storici, impersonali, capaci di salvaguardare i diritti degli individui e di impedire forme di dominio personale, anche tiranniche. Il caso Calas sarà un’evidente dimostrazione di quello che accade in mancanza di uno Stato di diritto.
Da cosa parte Voltaire per scrivere il Trattato sulla tolleranza?
Da un fatto di cronaca, inaugurando in questo modo una tradizione occidentale, quella della mobilitazione dell’opinione pubblica su un fatto giudiziario.
Lo imiteranno: Émile Zola (1840 – 1902) con “Il caso Dreyfus”, Natalía Ginzburg, (1916 – 1991) con il “Caso Sofri”, scrivendo sulla storia e sui processi.
Voltaire anche in questo ha inaugurato una modalità di battaglia politica: quella dell’uomo senza potere politico, che cerca di convincere e mobilitare l’opinione pubblica davanti a quella che ritiene essere un’ingiustizia del potere.
Il 13 ottobre del 1761, Marc Antoine Calas viene trovato impiccato nella sua casa di Tolosa. I Calas erano commercianti ugonotti e quella sera avevano a cena degli amici. Pierre, il fratello minore di Marc Antoine, lo trova morto impiccato: urla, chiama aiuto, accorre gente. Il padre, prima che arrivino le autorità, per salvaguardare la reputazione della famiglia, cambia la versione e sostiene che il figlio è stato ucciso. Infatti i suicidi venivano denudati e il cadavere veniva portato in giro per la città e quindi il padre per evitare ciò, cerca di far passare la tesi dell’assassinio. Ma questa tesi si ritorce contro di lui, perché Marc Antoine doveva avere un posto pubblico, ma non potendolo ottenere in quanto ugonotto, aveva deciso di convertirsi al cattolicesimo e la mattina dopo doveva essere battezzato. E allora si insinua il dubbio che il padre lo avesse ucciso perché non si convertisse al cattolicesimo. Voltaire racconta questa storia due anni dopo. Il racconto è impressionante anche perché ricalca le modalità inquisitorie che si ritrovavano intoccate quasi tre secoli dopo. Il padre viene torturato alla ruota, considerato colpevole, poi viene accusato uno degli amici che era a cena, poi gli altri parenti vengono accusati di collaborazione all’omicidio e le sorelle minori vengono allontanate dalla famiglia e affidate a un orfanatrofio. Il padre viene condannato e ucciso. Il punto è che, ad esecuzione avvenuta, i magistrati si rendono conto di aver commesso un errore e allora cercano di coprirlo, perché non possono dichiararsi colpevoli; e nel giro di pochi giorni dall’esecuzione, la famiglia viene dissolta insieme a tutti coloro che potevano sapere la verità. L’unica della famiglia che resta nella condizione di poter fare qualcosa è la moglie di Calas, che va da Voltaire e gli racconta la storia. Voltaire scrive la storia e pubblica il libro; la vedova di Calas presenta il caso alla magistratura di Parigi e ottiene l’allontanamento dei giudici dal loro incarico.
Mi è capitato di tornare sul libro di Voltaire nel momento in cui avevo appena letto un articolo sul caso di Avetrana, con l’elenco dei vari accusati della famiglia e questi magistrati che non sapevano chi fosse stato a commettere l’assassinio, però continuavano a mettere in galera componenti della famiglia: è una consapevolezza antica questa….
Voltaire nel “Trattato sulla tolleranza” ha anche ricostruito la storia dell’intolleranza religiosa fra greci, ebrei, cristiani e cattolici; e sull’intolleranza che emerge da questo episodio vanno considerati due aspetti.
1) Siccome i principi a cui si ispira la religione cattolica hanno un carattere rivelato, non possono essere messi in discussione. Chi viene a contatto con la rivelazione, ne diventa depositario, ha l’obbligo morale di essere testimone di questa rivelazione e quindi deve preservare la rivelazione da chi potrebbe darne scandalo
2) Il proselitismo.
Gli argomenti che vengono portati a sostegno della tolleranza sono tre.
Il primo è la tolleranza che è una soluzione razionale, un calcolo tra costi e benefici, dove i costi dell’intolleranza sono valutati come superiori a quelli della tolleranza. Questo argomento è chiamato anche “prudenziale”: l’uomo prudente è quello che – essendo capace di guardare più lontano – è in grado di cogliere gli aspetti positivi e negativi delle sue azioni; così la tolleranza religiosa è garantita nel momento in cui gli esiti dell’intolleranza danneggerebbero molti. Nel caso Calas la tolleranza non avrebbe portato i costi esistenziali e politici (con lo screditamento dei magistrati), che invece l’intolleranza ha portato. Questo argomento è stato uno strumento nelle mani del potere politico, per risolvere i conflitti religiosi. In questo caso possiamo parlare di “tolleranza verticale”. Questa soluzione porta in realtà a delle incognite: intanto è una soluzione precaria perché dà valore alla tolleranza solo strumentale, per cui consente anche l’inseguimento di altri valori, che – come tali – sarebbero superiori alla tolleranza, che è solo uno strumento.
Il secondo argomento è chiamato epistemologico ed è fondato sulla tesi calvinista. Possiamo rintracciare questo argomento in un teologo italiano vissuto nella seconda metà del ‘500 – Jacopo Acconcio (1492-1567), che scrive lo “Stratagemma di Satana”, nel quale condanna l’intolleranza delle Chiese (cattolica e protestante) e afferma la necessità di una radicale libertà religiosa basata sull’indagine epistemologica: “l’intelletto umano, benché incapace di giungere alla piena comprensione delle verità ultime, può comunque tendere ad esse e aumentare le proprie conoscenze. Qual è lo stratagemma in cui ci fa cadere il demonio? Il demonio ci fa credere che la nostra ragione sia come quella divina, infinita, senza limiti, capace di accogliere la verità per intero”. Acconcio invece sostiene che la mente umana è fallibile e quindi si fa sostenitore della dialettica e del dialogo sulla verità e dice – 200 anni prima di Voltaire – che questo argomento epistemologico potrebbe essere sintetizzato in questa frase: “può darsi che io abbia torto e tu abbia ragione e che la mia idea che la verità rivelata di cui io credo di essere portatore, in realtà sia uno stratagemma di Satana per farmi cadere nel peccato dell’intolleranza”. E’ una riflessione geniale considerando che viene da un teologo del ‘500. Salvatore Veca (1943) ha definito questo argomento una “tolleranza orizzontale pubblica”, in cui è necessaria la reciprocità, perché non è più imposta dall’alto, ma è qualcosa che ciascuno di noi deve esercitare nei confronti degli altri e se viene a mancare la reciprocità, cade la possibilità della tolleranza. Il fine è quello di creare una comunità in cui ci sia una condivisione di credenze, dove non ci siano né stranieri né esclusi e paradossalmente non ci siano dei “diversi”. La battaglia finale della tolleranza ci sarà con l’ammissione del diverso, perché lo spazio sarà per tutti.
L’ultimo argomento a favore della tolleranza è quello morale. Il contesto non è quello costituzionale o istituzionale o politico, ma quello dei rapporti interpersonali che coinvolgono le relazioni che noi abbiamo con gli altri. Ciascuno di noi è chiamato a mettere in pratica la virtù della tolleranza, che non è strumentale, ma deve avere un posto a sé stante nella frequentazione degli altri. E quindi si tratta, come dice Edgar Nahoum detto Edgar Morin (1921) nel suo libro sull’etica, “di guardare nella propria interiorità e di capire che il problema etico centrale di ogni individuo è quello della propria barbarie interiore”, riprendendo in questo modo il concetto della bestia del fanatismo che secondo Voltaire sta dentro di noi e che la ragione deve tenere sotto controllo. Morin ci dice che la prima virtù da coltivare per dare spazio alla tolleranza è quella dell’autocritica. In questo modo la tolleranza assume una dimensione “orizzontale privata”, che sfugge alla logica della reciprocità e che in realtà ha anche un grande impatto politico, perché è la risposta a quelli che, per esempio, nel mondo contemporaneo si oppongono alla costruzione delle moschee perché i musulmani ce l’hanno con le chiese. Ma noi non abbiamo bisogno della reciprocità per coltivare la tolleranza, se è qualcosa che ha a che fare con la nostra interiorità e con le relazioni che abbiamo con gli altri. Lo scenario che si apre riguardo alla tolleranza vista in quest’ultimo modo è sicuramente quello dell’incertezza, che diventa una scommessa etica sul fatto che noi siamo in grado di ripensare noi stessi. Una frase di Seneca (4 a.C.-65 d.C.) recitava: “una sola cosa può renderci tranquilli: il patto di essere reciprocamente indulgenti” e Voltaire chiude il suo discorso sulla tolleranza con una frase che trovo veramente geniale: “la tolleranza è l’appannaggio dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze – questa è la prima legge della natura”. Questa è la lezione che arriva dal “Trattato sulla tolleranza” di Voltaire, cioè quella di riconoscere la propria debolezza nella debolezza dell’altro e perdonarle entrambe.