Sandor Marai (1900-1989) non ha bisogno di grandi presentazioni, scrittore e giornalista ungherese la cui fama è legata al bellissimo romanzo Le braci.
Con Volevo tacere ne apprezziamo le doti di giornalista che sa mettere in relazione fatti e cronaca e non sbaglia a renderci partecipi della concatenazione tra i fatti della Storia con quelli della sua Patria – l’Ungheria. Il titolo riassume un corollario perfetto per un giornalista, il volevo tacere ma non ho potuto, perché non si doveva tacere , perché anche il silenzio è una risposta. Io ho qui sintetizzato velocemente il senso dell’incipit del libro che poi riporterò in calce.
Marai racconta gli anni che vanno dall’Anschluss al giorno in cui i carrarmati tedeschi (1944) varcarono i confini e si presero l’Ungheria e anche il dopo, il 1945 con l’arrivo dei sovietici e il suo esilio nel 1948, con riferimenti storici al periodo della dominazione turca e alla tirannia degli Asburgo. Si tratta di una testimonianza forte – i ricordi sono vivi –se racconta tutto, tutti potranno comprendere, un testamento spirituale e politico.
Sembra lieve la sua prosa, chiara, determinata ad arrivarci nonostante il tempo; la penna del giornalista – ci dimostra – può essere assai efficace, senza fronzoli, ai fatti aggiunge un po’ dei suoi sentimenti. Come tanti che vivevano la quotidianità mentre chi definiva le sorti dell’Europa metteva in atto le proprie strategie, Marai racconta che con il tempo ha ricordato di una serena notte tranquilla nella sua casa di Buda mentre in quella stessa sera molto lontano, al 10 di Downing Street, il primo ministro inglese Chamberlain e consorte avevano ricevuto e intrattenuto per una cena il ministro degli affari esteri tedesco von Ribbentrop, incontro al quale seguirono operazioni militari per prendersi l’Europa dando avvio ad un’epoca di drammatici eventi. Così Marai è un po’ tutti noi. Assiste alla caduta delle democrazie che erano state a guardare, ai profughi, si attacca alla sua necessità di scrivere per mantenere una sua normalità, le abitudini del lavoro e il guardarsi attorno tra gente incredula, disarmata, impreparata ad affrontare il periodo storico del Novecento più crudele e drammatico.
Fornendoci molti elementi di riflessione e strumenti importanti da usare per riconoscerne il pericolo del sopraggiungere di un totalitarismo e dei suoi segnali, scopriamo un Marai profondamente europeista, molto moderno con le radici nella condizione storica molto amara di quanto la sua cultura magiara aveva dovuto penare per assimilarsi a quella europea nei secoli passati e ne trova l’anima, affronta il dubbio di quanto peso possa avere il sentimento nazionale, che non può essere confuso né coi nazionalismi imperialisti né con lo sciovinismo, auspicando l’avvento di un’epoca delle grandi unità, al di sopra di razza e di lingua.
Il destino della nazione, un dovere per un giornalista parlarne perché “non solo i poeti concepirono il pericolo di perdere tutto”.
Il totalitarismo, i nazionalismi, la reazione, il dovere, la memoria e la vita di tutti i giorni in un libro scritto tra il 1949 e il 1950 e pubblicato in Italia nel 2013.
“Volevo tacere. ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso.”
La letteratura mitteleuropea continua ad aprirci gli occhi.
(maria rosa)
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